LE COSE CHE SCRIVO IN QUESTO BLOG SONO FRUTTO DELLA MIA FANTASIA (BACATA).
QUALSIASI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ESISTENTI E' CAUSALE.

mercoledì 29 marzo 2017

Lutto


Quando uno subisce una perdita, ha un lutto.
Non importa che perdita sia, l'importante per determinarne l'entità è quello che si prova.
Se è proprio una perdita per te importante, sentirai di aver perso un pezzo di te.
Questo pezzo mancante viene sostituito da un vuoto sotto pressione, pulsante, un vuoto inriempibile, une specie di cisti di nulla piazzata nei tuoi tessuti.
Ciò che hai perso non c'è più, ma non è rimpiazzabile da nulla. E infatti, è proprio il nulla che si installa, un nulla pulsane, un nulla che nei suoi
rigonfiamenti rimbalza via quello che c'era, non solo ciò che è sparito.
O prima c'erano persone intorno? Il nulla sgomita contro di loro: più
ti avvicini, più tuo nulla le rimbalza via lontano. La persona
media, davanti al bolo di vuoto, scappa
a gambe levate ancora prima che ci sia il rimbalzo.
La persona media vuole solo cose facili intorno.

E così, di colpo, non solo non c'è più quello che avevi perso, ma non c'è più nessuno.

La città in cui vivevi era amichevole? Adesso ti collassa minacciosa addosso, e non ti schiaccia solo perché le macerie rimbalzano sulla tua palla di vuoto.

Il tuo stesso corpo si paralizza, perché lapilli cistosi di nulla ti si incastrano tra i tessuti nei punti più strategici: articolazioni, tendini, insomma, là dove sono più paralizzanti.

Come fare?
Aspettare, prima o poi le cisti si assorbono.
E se non si assorbono?
Ci si convive.

giovedì 23 marzo 2017

Empatia soporifera


Quando uno è insonne o anche solo impiega tanto tempo ad addormentarsi perché la sua testa è crivellata da pensieri sparsi e sballonzolanti in modo incontrollato che si scatenano proprio nel momento dell'orizzontalità, non è come quando si è qualcuno che appena decide di farlo dorme.

Quando si è qualcuno con disturbi del sonno, il sonno diventa prezioso.
Un po' come lo è l'aria se si è asmatici.

Anche se uno non si riduce proprio come l'uomo senza sonno, pure se  a vederlo non sembra, è difficile essere di quelli che si mettono nel letto e già sanno che ci vorranno un'ora o due per addormentarsi, e che, non appena si sente un rumorino, o se si sono sbagliati i dosaggi delle bevande e si deve andare in bagno, o se anche solo ci si sveglia per un brutto sogno o senza motivo, ricomincerà la trafila del doversi addormentare.

C'è gente, invece, che dormirebbe nel deserto a 60 gradi anche con vestiti di materiale plastico che gli fondono addosso sotto il sole cocente fino a diventare bordeaux a bolle. Costoro si addormentano mentre ancora stanno chiacchierando, a volte iniziano proprio a russare durante la conversazione: sembra incredibile, ancora conversano e già dormono.

Se persone di questi due tipi si trovano a dover condividere una stanza, o anche a essere separate solo da una parete di mattoni, come spesso succede nei condomini, si possono creare varie situazioni.

Se il dormitore è uno che si mette nei panni degli altri, anche nell'eventualità che non sappia come siano,pur essendo ignaro del fatto che in sua vicinanza dorme un insonne, utilizzerà degli accorgimenti di buon senso: non ascolterà la tv o la radio a volume assordante, soprattutto in orari adibiti al sonno, non parlerà a volume altissimo con avventori dotati di zoccoli o tacchi a spillo e in movimento permanente, non metterà sveglie simili alla fanfara dei bersaglieri di Bedizzole a volume da concerto di Marilyn Manson (o viceversa) e la farà suonare per poco tempo, una volta sola, quella che effettivamente gli serve per potersi svegliare/alzare all'ora necessaria. E soprattutto, non la dimenticherà accesa quando andrà via, lasciandola suonare ogni 7 o 8 minuti per tutto il giorno.

Tutte queste cose può farle se si trova in un luogo dove non danno fastidio a nessuno, tipo sul cucuzzolo di una montagna, magari a fare l'eremita. Ma probabilmente qualcuno che vive in cima a una montagna eremiticamente, distaccato da questo mondo e a contatto con la natura, probabilmente anche svincolato da obblighi sociali come il lavoro, non penserà ad accendere la tv o la radio ad altissimo volume e si sveglierà quando natura gli dirà che è ora di alzarsi perché il suo corpo ha avuto sufficiente ristoro, di sicuro senza snaturare un atto di pace come il dormire con un atto di costrizione come il suono innaturale di un'apparecchiatura, per quanto melodiose possano essere la fanfara dei bersaglieri di Bedizzole, una bella canzone di Marilyn Manson, o altre musiche scelte con cura.

Il dormitore può in realtà anche far risuonare sveglie a profusione, tv, radio, voci, tacchi, zoccoli, e chi più ne ha più ne metta  in un appartamento in città, o in un dormitorio, o in un hotel, ma prima o poi qualcuno manifesterà la sua contrarietà in colorite modalità.

Se infatti il dormitore ipotizzerà, in buona fede, che tutte le persone abbiano un rapporto con il sonno come lui, magari non si renderà conto che quello che per lui è un rumorino insignificante, che magari manco sente, che gli turba il sonno giusto quel tantinello da permettergli di ricordare un sogno e magari indirizzarlo a suo piacimento, per l'insonne è una catastrofe. Che per lui svegliarsi in mezzo alla notte o in un momento non previsto è un po' come l'amplificazione dell'ottantacinquesima centuria di Manganelli: prova un fastidio non lieve, ma pesante, e la sua disperazione non è miniaturizzata, ma ingrandita, perché sa che difficilmente sarà un microrisveglio di quelli che molti fanno senza nemmeno accorgersene.

L'insonne, a sua volta, non crederà vero che il dormitore possa non patire dei suoi stessi rumori,
forse non capirà.
Manganelli gli direbbe che se non capisce è prossimo al centro.
E lui inizierà a pensarci, a quello che dice Manganelli,
e i pensieri si accumuleranno,
e prenderà il libro e lo leggerà,
 e se non lo leggerà ripartirà comunque il flipper di pensieri,
finché, a furia di non dormire,
anche quelli gli si spegneranno del tutto.

mercoledì 22 marzo 2017

Il valzer degli sterzi

 Arrivo in automobile nei dintorni di casa mia con la solita, strisciante, inquietante sensazione di girone dell'inferno per peccatori di troppo automobilismo. Un demone su una sporgenza immaginaria dell'immaginario inferno della mia mente ridacchia di me e mi dice: "Sentiti colpevole perché non hai fatto il car sharing, e non hai nemmeno aderito a quello fantasticissimo di macchine elettriche che ha GIUSTAMENTE occupato due interi, lunghissimi lati di due, intere lunghissime strade dove prima cupidamente occhieggiavi per trovare un pertugio sufficiente anche solo per incastrarti paraurti davanti contro auto davanti e paraurti dietro contro auto dietro". Un altro diavolo sorvola il tuo immaginario, fastidioso come un arbre magique ondulantemente appeso allo specchietto retrovisore: "Pentiti di esserti fatta passare dai tuoi genitori questa macchina cubettosa ingombrante inquinante, addirittura a benzina, che beve come un alcolista e non si incastra da nessuna parte, vergognosa!"

In questo stato di diabolica invasione del mio rarissimo momento automobilistico, occhieggio a più non posso nella speranza di trovare un parcheggio al più presto, scendere, dimenticare che ho a disposizione un'automobile fino alla prossima pioggia o trasporto eccezionale.

Miraggio nel deserto causato dai sulfurei effluvi dei miei molteplici diavoletti saltellanti, vedo uno spazio libero, in una zona relativamente vicina a casa, ma, come nei peggiori inferni, ecco un cubetto di auto rosso, delle dimensioni del mio, che cerca di infilarcisi. La manovra che sta effettuando mi induce a fermarmi un po' in disparte ad osservare. C'è un certa traccia di inesperienza in tutto quel girare il volante. E soprattutto, la traccia più importante, quella di parcheggiamento non ha alcun senso logico. Mi godo il valzer dello sterzo per dieci minuti buoni, ormai sicura che terminerà con una disfatta. Quando le mie previsioni si verificano, prendo io il posto, riconoscendo che è un po' giusto e facendo pure io due o tre manovre in più dell'immaginato.

Quando scendo, mi avvio verso casa e vedo il cubetto rosso che cerca di infilarsi in un parcheggio ancora più lungo del precedente, quasi sotto casa mia. Mi viene la tentazione di aspettare ancora e poi beccarmi quello. Osservo quasi divertita la signora sulla sessantina, capelli corti bigodinati imbrigliati in una trappola di lacca, agitarsi nell'abitacolo. Immagino la pezzatura delle ascelle farsi così inondante da raggiungere quasi il cappotto di lana cotta, anche lui rosso, come le sue guance rubizze, a fare pendant con il mezzo.

Nella foga, la signora non si è accorta che si è liberato un altro parcheggio, proprio sotto casa mia, di quelli dove non serve nemmeno fare manovra perché attigui al passo carraio del portone.
La mia emozione è troppo grande, non posso perdere l'opportunità di un parcheggio sotto casa.
Corro all'incrocio tra la mia via e la via dove intravvedo, a circa 300 m, la mia auto.
Osservo a fondo il fondo della mia strada, immaginando tutte le possibili combinazioni di auto in ricerca di parcheggio. Le sorveglio arrivare, tremo all'idea che occupino il posto da me ambito, ma non accade. Quando non c'è segno di anima viva fin dove lo sguardo può arrivare, mi lancio in una frenetica corsa verso la mia auto, la scastro con cinque o sei manovre rimbalzanti di paraurti in paraurti come solo una completa donna può fare, mi precipito ai 100 all'ora nella mia strada, a momenti colpisco il bidoncino rosso che ancora manovra con direzioni imprecise e aleatorie, e mi infilo nel miglior parcheggio pensabile, quello dove mi sarei piazzata anche se la via fosse stata deserta.
Scendo, infilo la chiave nel portone, do un'occhiata alla signora. I rivoli del suo sudore dovrebbero ormai raggiungere il tombino lungo il marciapiedi.
Salgo in casa, mi faccio una doccia, mi vesto, scendo a buttare la pattumiera.
Il cubetto rosso è ancora lì, la signora ancora sopra.
Mi viene da pensare che tra poco dovrò andare a comprarle una tanica di carburante per il refill.

Risalgo, chiamo un po' di gente, trovo qualcuno per andare a fare un giro, esco di casa.
Il parcheggio è ancora lì, libero.
La macchina è ancora lì, in mezzo alla strada di traverso.
La signora non c'è più.
O si è liquefatta, o ha deciso che aveva già raggiunto il livello di parcheggio migliore possibile per lei.

domenica 19 marzo 2017

E-commerce e praticità


La tecnologia aiuta tantissimo a facilitarsi la vita.
Io, ad esempio, compro tutto on line. E' bellissimo, perché, comodamente immoto sulla tua sedia, guardi, scegli, clicchi e aspetti che arrivi il pacco.

Il pacco, poi, arriva quando tu non ci sei.
Di solito il centro di smistamento è in un luogo così lontano che in mezzo ci sono n-mila negozi che vendono l'articolo a molto meno del prezzo che hai pagato on-line + quello che devi pagare per raggiungere il centro e tornare indietro, senza contare il costo del tuo tempo preziosissimo.
Vai a ritirarli, impiegando un pomeriggio intero.
Torni a casa. Apri il pacco. E' un pacco. Se hai comprato roba elettronica, è incompatibile con le tue robe elettroniche. Se hai preso vestiti tipo su Zalando, la taglia è sbagliata.
Ti metti pazientemente sul pc a compilare mega moduli di reso.
Devi preventivare un altro intero pomeriggio per le restituzioni, soprattutto se hai vari pacchi-pacco.
Per fortuna, i punti di reso pullulano sulla cartina in un modo inquietantemente rassicurante.
Vai a piedi al primo punto di ritiro, quello che hai scelto per Zalando sul sito, e scopri che non è più un punto di ritiro. Va beh, ce ne sono altri. Vai in tutti, in ordine di distanza. Nessuno è più un punto di ritiro. Il processo continua. Data la crescente distanza, prima prendi la bici, poi proprio la macchina. Niente, nessuno è più un punto di ritiro. Alla fine riconsegni in un tabaccaio sperduto in cima a un monte, dove ti prendono senza problemi i pacchi sorridendo.
Ed è subito sera.

Preventivi un altro pomeriggio per la comoda restituzione del reso (a pagamento) di Amazon.
Per evitare che il ritiro presso casa tua (più a pagamento ancora) avvenga in un momento in cui non ci sei, a creare una spirale di assenze di escheriana memoria, decidi di optare per l'unica altra soluzione: recarsi alle Poste. Già, quando ci si approccia al termine "Poste", viene un brividino freddo lungo la schiena. Si va, si prende il numero del servizio pacchi, si aspetta. Se non c'è nulla di strano, si hanno 327 persone davanti, e il numero 27 è una chimera legata alla lettera che l'accompagna (magari la D quando sono alla A), se invece si hanno poche persone davanti, vuol dire che si sta per presentare un murphyco imprevisto. L'ultimo pacco-pacco che ho restituito in Posta, avevo tre persone davanti. Peccato che una di queste fosse un energumeno mastodontico che, appena sono arrivata sul luogo dell'attesa con il mio pacco davanti agli occhi, m ha urtata. Mi sono detta che fossi un po' ingombrante. Poi è venuto il suo turno. Si sono scatenati grida, urla, intervento della Polizia, lui voleva assolutamente che gli facessero un servizio del Banco Posta presso il servizio pacchi. C'è stato poco da spiegargli che quei terminali non erano adatti a ritirare i suoi cento euro. Il bello è stato che, dopo un'ora di urla, interruzione del servizio e strattoni, cosa è successo? Gli hanno fatto il servizio. Tanto per far capire che alla fine chi fa il prepotente ottiene tutto. Infatti se n'è andato dicendo "Visto che potevate?". Poi, quando mancava un numerino al mio turno, è tornato con altre lamentele, passando davanti a tutti, otturando di nuovo una cassa e impegnando tutte le impiegate. Alla fine se n'è andato colpendo tutti con il suo corpo tipo pallone del flipper impazzito. Sono riuscita a restituire il pacco. Di solito fanno grane, ma dopo il burbero irragionevole precedente erano tutti piuttosto soddisfatti di avere me come cliente, nonostante l'enormità del pacco da restituire, e tutto è andato liscio. Dopo due ore e mezza di attesa.

La prossima volta, comunque, se dovrò comprarmi delle borse da bici, le comprerò dal Giramondo. In alternativa, scuoierò un capretto e mi ci farò due borse cucendole con filo di canapa. Sarà comunque più rapido che usare Amazon. Con il vello del capretto mi farò una maglia che non comprerò su Zalando, e sarà di misura.

martedì 14 marzo 2017

Ramengo

Devo scrivere un post devo scrivere un post. Il mio blog lamenta incurie nei suoi confronti e io non riesco a trovare nulla di decente da buttarci dentro.
Come posso scrivere qualcosa che non meriti di essere letto, o che perlomeno non ritenga tale e avere il coraggio di schiacciare quel pulsante Pubblica arancione che troneggia in alto a destra? Direte che l'ho già fatto, ma era in buona fede perlopiù. Adesso non lo sarebbe.
Come può essere che uno passa mesi e mesi ad avere addirittura l'urgenza di scrivere, come se avesse qualcosa di vitale da cacciare fuori, e poi all'improvviso trovi del tutto banale, inutile e stupida qualsiasi cosa possa uscire dalla sua tastiera?
Muse finite, musi anche. Forse ci sono stati i saldi e non me ne sono accorta.
Passo in rassega quello di cui potrei scrivere: fatti di vita vissuta da me che non racconterei nemmeno al mio criceto sordo, se ne avessi uno che sa la LIS; fatti di vita vissuta da altri che mi paiono di banalità immensa, come lo sono loro stessi, e come fa una persona banale a scrivere di fatti banali vissuti da persone banali in modo non banale?; fatti irraccontabili per non ledere privacy e buon costume (e banali); teorie che dovrebbero trovare riscontro nella realtà ma non trovano che scontro o, peggio, il nulla; poesie che non capisce nessuno, nemmeno io.
La banalità ti aspetta all'angolo, ti salta addosso come un'ombra, si appollaia su di te e ti oscura dalla testa ai piedi, e hai poco da dire che un tempo non ti sentivi banale, avevi muse e musi, adesso lo sei, sei demusificato, banale, circondato da banalità e hai un blog banale che andrà a ramengo sia che tu scriva dentro queste cose banali, sia che tu lo abbandoni.
Abbandonare un minore è reato per giunta.
Va beh, adesso trovo anche il coraggio di schiacciare Pubblica.
Senza foto.
Tiè.

giovedì 9 marzo 2017

Un bel film

Un po' di tempo fa ho visto un film molto raccomandato, un film con tutto questo popo di premi:
Era un film molto sentito, con belle scene, una bella trama; in realtà non mi ricordo praticamente nulla ma il problema probabilmente è la mia memoria che, avvicinandosi all'età senile, è intaccata.

C'era una sola scena, una scena impercettibile, che ricordo.

Una festa, uno dei protagonisti che arriva. Zoomata sulle persone che già sono nella casa. Una donna si gira, vede chi entra in una soggettiva in cui i suoi occhi non guardano, sono totalmente vuoti.
Quella donna ha visto il protagonista, quello per cui noi spettatori eravamo là seduti e paganti, quello per sapere la cui storia eravamo usciti di casa, infreddoliti, avevamo camminato, pedalato, guidato e cercato parcheggio fin là, quello per cui una troupe ha vinto tanti premi, e non lo ha nemmeno guardato.
Perché la donna era quella di un'altra storia.

Nessuno e niente interessa a tutti, e quasi sempre gli sguardi delle persone passano su ciò che le circonda senza soffermarvisi, senza entusiasmo, finché qualcosa di rilevantemente insignificante fa sì che si sia costretti a guardare, a non togliere più gli occhi da lì, a riscoprirsi capaci di entusiasmarsi e di curiosità.
Ma solitamente non è così.
Solitamente è come per la donna.

lunedì 6 marzo 2017

Cocciuto come un...piccione

piccione esule e cupido

C'era una persona che conoscevo, che tra l'altro ricopriva un ruolo di tutto rispetto e molto pio nella società, che ad un certo punto ha comprato un fucile e si è messa ad andare al poligono di tiro per imparare a prendere bene la mira. Dopodiché si piazzava nell'estroflessione più elevata del suo luogo di lavoro, che nella fattispecie era una specie di torre che si ergeva in cima alla struttura, e si metteva a sparare ai piccioni, con echeggiamenti sui muri delle case di tutti gli abitanti della cittadina, che uscivano sdegnati sui balconi e storcevano il naso dalle finestre. 
Nella comunità, infatti, quest'abitudine di sparare ai piccioni dall'estroflessione erta in cielo era vista come qualcosa di un po' troppo estroso, ai limiti della decenza, e devo rammaricarmi di esser a suo tempo stata d'accordo con la maggioranza delle persone. Oggi, infatti, mi rammarico, perché ho capito che i piccioni sono da sterminare senza pietà, e che perfino una persona pia ha da perder la piità dinanzi a cotanta cocciutaggine.

Lo stormo di piccioni, infatti, elegge una determinata zona a suo luogo di ricreazione (poniamo ad esempio il balcone di qualche sventurato); per loro ricrearsi è inteso in senso assai letterale, e consiste nel cagarsi quasi completamente per poi ricomporsi con altro becchime ingurgitato da quello che le care vecchine spargono amorosamente sui balconi altrui. Una volta che la zona è stata decretata, non c'è nulla che regga: ultrasuoni, peperoncino, naftalina, conegrina, saltare in mezzo a loro gridando "andate via maledettissimi infestatori di balconi altrui" sventolando le braccia in modo disordinato, e a volte non reggono nemmeno le punte antipiccione. I maledetti le vedono e si avvicinano sbattendo le ali a più non posso per staccarle. Se non funziona questo sistema perché è stata usata colla Nontimolla, strappano le punte con il becco. Se hanno il becco troppo smussato, vanno ad appoggiarsi in tutti i luoghi in cui non ci sono punte. Non viene nemmeno in mente loro di eleggere un altro luogo; anche se ce ne fossero mille più accoglienti nei dintorni, continueranno ad anelare il balcone, diventato una sorta di Alcatraz, con sguardo cupido. Nessun essere umano può costellare ogni cm quadrato del suo balcone con punte, anche perché poi non potrebbe più camminarci se non scalzo con fachiriche abilità. Già rischia di cavarsi un occhio dalle orbite inciampando in direzione del corrimano puntuto.

E' chiaro come, una volta provato ogni accorgimento umano, l'unica soluzione sia la sparatoria. 

Si rischia di centrare un vicino, già, ma se si mira bene questo non può essere che beccare due piccioni con una fava. 

giovedì 2 marzo 2017

Voglia di faticare


L'ignavia è una brutta roba. Non per niente è pure finita all'Antiferno. 

Un adulto, ad esempio un prof, guarda i suoi alunni e se li immagina tutti sulla riva dell'Acheronte, a sospirare e soffrire sotto un cielo che non è cielo. Non che cambi molto rispetto alla realtà, a vederli stravaccati sui banchi, così molli e indolenti che se viene loro chiesto un libro, o non lo hanno perché era troppo faticoso prenderlo dalla libreria, oppure è improba l'idea di mettere un braccio nello zaino, frugare, addirittura dare una sbirciata dentro, con dispendioso movimento del collo, e porgerlo al docente. 

Poi lo stesso adulto se ne torna a casa, si mette la tuta di pile che a furia di lavarla ha messo su tutti i pallini, vi si imbozzola, e quando vede che la pattumiera dell'umido gli straripa di vermi la lascia lì perché non ha voglia di scendere a buttarla (per fare il figo dirà che ha il compost). Si accorge di dover fare la spesa ma ormai si è intutato? Pazienza. Manca la carta igienica? Si pulisce con lo Scottex per la cucina pur di non scendere al supermercato sotto casa. E' finito pure quello? Usa i fazzoletti di carta. Son finiti pure loro? Si lava e si asciuga con il phon, pur di non uscire. 

Non parliamo di altre attività, tipo acquisto di oggetti non di prima sussistenza, partecipazione a convegni, corsi, bricolage, attività straordinarie tipo pulizia del frigo, depiccionificazione del balcone, cambio delle ruote della mtb, ecc. 

Ma la domanda è: perché si è così? Agli alunni davvero non interessa un tubo di quello che si fa a scuola? L'adulto avvolto nel suo consolante pile casalingo davvero fatica così tanto a fare qualsiasi minima attività che gli richieda di alzarsi dalla sedia?

Per due ultime domande la risposta è NO. 

Il punto è che è molto più faticoso essere ignavi
piuttosto che avere voglia di faticare.

Il problema è che la voglia di faticare nasce da una motivazione tale che faticare non è più faticare, e rende possibile fare cose pazzesche senza quasi accorgersene. 
E' lì che uno si sente vivo,
che il tempo si moltiplica,
che si arriva a fine giornata stanchi ma felici,
che si ha già voglia di ricominciare. 

Ma come si fa a passare dal circolo vizioso dell'ignavia
a quello virtuoso dell'aver voglia di faticare?

Boh.