LE COSE CHE SCRIVO IN QUESTO BLOG SONO FRUTTO DELLA MIA FANTASIA (BACATA).
QUALSIASI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ESISTENTI E' CAUSALE.

venerdì 10 agosto 2007

Profumo d'estate

Oggi, dato che poi arriverà il week end e non avrò internet, dato che già vi immagino piangenti davanti al pc, in assenza delle mie righe on-line, vi incollo un mio intero racconto. E non uno qualsiasi, bensì quello che ha perso il concorso "Profumo d'estate" della Scuola Holden!
Buona lettura.

LETTERA DI SABBIA

Caro ****,

ti scrivo.
Ti scrivo per chiederti: ti ricordi?
E anche per dirti quello che non puoi ricordare.

La spiaggia, sempre quella spiaggia, benedettissima e maledettissima spiaggia, la ricordi?
Io la ricordo bene.
Sulla sabbia dell’ora di pranzo, così calda che si doveva camminare veloce, mi toglievo le scarpe. Preferivo il bruciore ai granelli nei sandali. Camminavo rapida e goffa sui carboni ardenti che separavano la passerella dal mio lato preferito. Sempre a sinistra, vicino alle rocce, nella parte più larga. Del resto, lo sai benissimo, che era il mio lato preferito. Era anche il tuo.
E poi, la sera, gli spiazzi di spiaggia vuota che aumentavano, la temperatura che scendeva e diventava una morbida carezza sulla pelle disidratata dal sole, quella palla rossa quasi appoggiata sulla linea dell’orizzonte, il mare piatto che rifletteva le ombre dei gabbiani, puntinato qua e là da qualche impiegato uscito dall’ufficio per una nuotata tardiva: un’armonia di ingredienti che formavano un cocktail di perfezione, di nessun-altro-posto-che-qui-nessun-altro-mood-che-questo. E io stavo là, seduta sul mio asciugamano e anche sulla stuoia, ché se no mi si riempiva tutta la spugna di sabbia. E dal basso dei miei dodici anni, lo sapevo, che raramente sarei stata così bene.
E poi ero con lui, lui che mi aveva fatta giocare da piccola, lui che mi aveva spaventata in cantina al buio, lui che anche allora inventava giochi e discorsi fuori dai canoni. Lui, che prima tutti prendevano per mio padre, poi, anni dopo, per il mio amante, e invece era sempre mio zio. Te lo ricordi, mio zio? Dovresti, o, perlomeno, potresti.
Chissà, probabilmente c’eri, quando io avevo dodici anni e pensavo che non avrei voluto essere in nessun altro luogo e in nessun altro momento che in quello. Forse eri uno di quelli che giocavano a racchettoni davanti a noi, o al nostro fianco. Forse, avevamo già fatto la coda insieme per la doccia. Forse. Io ero una bambina. Una bambina che vedeva solo quello che voleva vedere, e tu non facevi parte di quello che volevo vedere, allora. Io volevo solo la spiaggia nel tepore del tramonto, i giochi con mio zio, l’impiccato disegnato dalle nostra dita sulla sabbia umida, le nuotate di boa in boa fino a diventare puntini all’orizzonte di chi era a terra, i libri di quella collana per bambini, quella che pungeva la fantasia, letti con i raggi del sole tra i capelli, la sabbia tra le pagine, l’immaginazione in volo. E un’estate infinita di vacanze davanti a me.

Poi, nove estati dopo, ero di nuovo là, sempre là, su quella sabbia.
Non mi ero disamorata di lei.
Non succede di disamorarsi di qualcosa che si ama davvero.
Uscivo di casa.
Scendevo le scale scivolando lungo il corrimano ripido.
Passavo davanti al porto, con tutti quei velieri e i loro alberi che tintinnavano al vento.
Attraversavo la strada, zigzagando tra motorini carichi di uomini di razze miste zigzaganti per continuare la loro traiettoria evitandomi.
Passavo all’ombra delle palme, vicino ai giardini dove sonnecchiavano i pigri, sdraiati sull’erba umida di innaffiatoio.
Poi arrivavo in spiaggia, scendevo i gradini e mi immergevo nel tepore del pomeriggio.

Ogni tanto, ci sorprendeva un vento più forte, che agitava stuoie borse ombrelloni, sollevando mulinelli di sabbia e irritando il mare, che s’imbizzarriva e schiumava creste bianche dal suo ghigno di iena disturbata. E noi tutti rimanevamo in spiaggia. Facendo come se niente fosse. Intestardendoci a giocare a beach volley con palle che, in fuga, cavalcavano le onde fino alla linea dell’orizzonte. Strapazzando con tutte le nostre forze le palline con i racchettoni, anche se poi andavano dove voleva il vento. Mi buttavo tra i cavalloni. Infilavo la maschera con il boccaglio. Respirando con la bocca l’aria salmastra di gocce vaporizzate, scivolavo in acqua, finchè non mi trovavo lontana dalla riva, un po’ impaurita anche se non l’avrei mai riconosciuto, nemmeno a me stessa. Poi vi vedevo tutti, nere ombre sulla spiaggia, impegnati a rincorrere ombrelloni e teli, o seduti, con un piede sul pallone e una mano sulla maglietta. Allora decidevo di tornare, ché tanto la traversata non si poteva fare. Non in quelle condizioni. Mentre uscivo dall’acqua, sentivo i vostri sguardi su di me. Sapevo che mi guardavate senza che dovessi guardare voi a mia volta. E così, non ti avevo mica visto. Per me tu facevi parte della collettività spiaggia. Quella collettività da cui ogni tanto qualcuno si staccava per chiedermi se giocavo con i racchettoni e se volevo uscire la sera. La mia risposta era sempre sì alla prima domanda e no alla seconda. Tu, invece, non eri venuto a chiedermi di giocare con i racchettoni. Non mi avevi neppure chiesto di uscire la sera. Ti eri avvicinato, con le mani dietro la schiena, e io non ti avevo visto, tant’ero presa a rabbrividire mentre cercavo invano la stuoia. Mi avevi sfiorato un braccio. Avevo sentito la tua mano calda percorrere la mia pelle d’oca. Allora, avevo alzato lo sguardo e ti avevo visto, attraverso la danza incontrollata dei miei capelli. Avevo visto i filamenti di bambù che mi porgevi come un mazzo di fiori, che mi regalavi come se quel mazzo non mi fosse appartenuto fino a pochi minuti prima, in un’altra forma, certo, ma pur sempre mio.

Ti avevo sorriso, poi ti avevo scordato.

Mi ero asciugata in fretta, e mi ero messa la gonna estiva con la canottiera verde. Avevo camminato accaldata su per i viottoli, riparati da un arsenale di case colorate ammassate l’una sull’altra. Avevo attraversato l’uliveto, dove sembrava che il vento non avesse mai accesso, dove l’aria tiepida faceva da vettore al canto degli uccelli, ed ero entrata nella chiesa. Capelli bagnati, labbra salate, il nodo del costume nella pelle. Sì, andavo a messa, non so perché ci andassi, forse per convenzione, forse perché avevo bisogno di credere che qualcuno ci avrebbe voluto bene per davvero e per sempre, e ci avrebbe fatti stare bene per sempre, a prescindere dalle cazzate che avremmo fatto, anche se non era vero, perché le cazzate si pagano sempre. Il prete parlava nella sua aureola di luce. Non era un miracolo, era solo il sole forte dell’estate che attraversava le vetrate colorate, che si riversava sulla sua testa pelata, sul suo saio decorato d’oro e di innesti verdi lucidi. Mi sembrava bello essere là. Ero felice. Ma non perché fossi a messa, con mio zio sua moglie la sua amica. Non perché stessi trascorrendo i primi momenti di una lunga estate, e si sa che i primi momenti sono belli se non altro perché si pregustano i secondi.
Non per questo.
Solo perché ti avevo di nuovo ricordato: mi eri entrato nella mente con il tuo mazzetto di residui di stuoia, l’avevi usato per farti spazio tra le fronde dei miei pensieri, e ti eri seduto là, nel centro della foresta che mi lussureggiava in testa. E, mentre vedevo le labbra del prete che si muovevano, senza che ne uscisse alcun suono udibile, mi echeggiava nelle orecchie il tuo per lei, signorina.

Com’era, il mio stomaco, quando scendevo scivolando per il corrimano delle scale, poi. Come si strizzava sempre di più, man mano che scendevo per le stradine, ogni giorno prima, ogni volta sotto un sole più caldo. E quanto cresceva, la morsa che mi stritolava l’intestino, davanti al chiosco. Era quella che provavo già a sette anni, prima dei corsi di nuo-to. Mica so perché, ma tant’era. Ed era di nuovo là, quella morsa da dono natalizio spacchettato, da estate sgranocchia-ta famelicamente come un’anguria fresca, con i semi e tutto.
Temporeggiavo, passeggiando nervosamente lungo il marciapie-di, e allungavo il collo per vedere oltre il muretto senza essere vista. Poi, mettevo a fuoco la tua sagoma scura e saltellante tra il bagnasciuga e la spiaggia. Le tempie mi battevano al ritmo del cuore, e le mie dita stringevano forte i lacci della borsa. Studiavo la disposizione degli spazi vuoti, in modo da piazzarmi in un punto ragionevolmente distante da te. Poi, appena mi sistemavo, speravo che ti accorgessi di me. E tu te ne accorgevi sul serio, e lasciavi i tuoi compagni di beach volley, e mi raggiungevi, e mi sorridevi, e mettevi il tuo asciugamano vicino al mio, incastrato nel pochissimo spazio tra me e altri bagnanti sconosciuti.
Poi, finché c’era gente, parlavamo di tutto e di niente. Scordavo di aver seguito appena quattro anni di francese a scuola, e discutevo nella tua lingua come se non avessi mai fatto altro.
Quando la spiaggia si liberava e il sole era meno caldo, giocavamo con i racchettoni. Tutti, a una certa ora, giocavano con i racchettoni, e l’aria si riempiva dei tonfi legnosi delle palle. Te li ricordi, quei due tunisini che stavano lontanissimo l’uno dall’altro e si tuffavano nella sabbia? Sembrava che volessero bucare l’aria con i loro scambi. Ora non c’è più nessuno di loro. Non so dove siano andati. La sera, quando la spiaggia si sfolla, rimane deserta.
Al massimo c’è qualche famiglia, con i bambini che costruiscono le ultime torri dei loro castelli posticci.
Al massimo, ci sono io, sul mio asciugamano, buttato nella sabbia senza la stuoia sotto, che non mi capacito di come tutte quelle persone abbiano potuto sparire così, senza neppure avvisarmi.

Me l’avevi detto, che non ti piaceva molto nuotare.
Io avevo scherzato. Ti avevo anche preso un po’ in giro.
Ma non eri mai venuto con me, a fare la traversata.
Poi, quel giorno, avevi deciso di accompagnarmi.
La tentazione di andare all’isola a nuoto era troppo forte.
Non so se l’avevi fatto per difendermi, o per sfidare te stesso, o ancora per tutti e due i motivi insieme e chissà quanti altri.
Ora ti chiedo, perché avevi deciso di farlo?
C’era il mare, trasparente. Non dovevamo nemmeno mettere la maschera: bastava guardare in basso per vedere i pesci che ci passavano sotto i piedi in banchi.
C’era il sole, caldo, sulla nostra pelle abbronzata.
C’erano le grida dei bambini che giocavano a riva.
C’eravamo tu, io, e quel nessun-altro-posto-che-qui-nessun-altro-mood-che-questo che si prolungava irragionevolmente.
Il blu vivo dell’acqua stesa davanti a me contrastava con il bianco degli scafi delle barche.
A ogni bracciata, inspiravo tutti i centimentri cubi d’aria possibili, per immagazzinare la maggior quantità di benessere. Anche se poi mi toccava espirarlo tutto, quasi con rammarico.
Annaspavi un po’, ma mi nuotavi vicino. Mi sfioravi a tratti la schiena con le dita, con le tue maldestre bracciate a rana.
Non parlavi, ma quando mi giravo verso di te, ti si apriva un sorriso di mezzaluna bianchissima.
Dopo un po’, le tue dita non mi avevano più sfiorata.
Mi ero di nuovo girata, in cerca della mezzaluna, e ti avevo visto più lontano, alla mia sinistra.
Poi, eri sempre più distante.
Il contrasto tra il blu del mare e il bianco delle barche mi faceva male agli occhi.
Quel motoscafo veniva sempre più verso di te, tu andavi sempre più verso di lui.
Avrei voluto gridarti di stare attento, di girarti, di non guardarmi con la tua mezzaluna incosciente aperta in faccia.
Invece ti fissavo solo, impietrita, mentre le tue bracciate a rana si facevano scomposte, mentre la mezzaluna spariva, mentre il sole non era più tanto caldo, il mare non era più così blu, e le grida dei bambini non si sentivano più. Come facevo, a sentire le grida lontane dei bambini a riva, quando sentivo solo il tuo grido, un grido soffocato e subacqueo.
Poi, non avevo visto più nulla.
Un attimo di inghiottimento, di risucchio.
Poi, l’acqua, da grigia, era diventata rossa. Una spruzzata doppia di granatina in un Tequila Sunrise. La granatina, però, era il tuo sangue.

Sai, non ricordo più molto altro, di quel giorno.

In spiaggia c’è sempre il sole, la sabbia è sempre bollente a mezzogiorno, di sera c’è sempre lo sfollamento, il sole è sempre rosso, il mare piatto, gli impiegati nuotano sempre dopo le cinque.
Solo i nord africani non ci sono più.
Ci sono le famiglie, con i bambini che gridano sulla riva.
Io non mi sono disamorata della spiaggia.
Non potevo.
Come non ho potuto disamorarmi di te.
Mi siedo sul muretto, o scendo ad allargare il telo sul lato sinistro.
Penso al nessun-altro-posto-che-qui-nessun-altro-mood-che-questo, a quella felicità assoluta.
Non ti preoccupare, non sono infelice.
Sono relativamente felice.
Ho una famiglia, ho un lavoro, ho dei soldi.
D’estate, vado in vacanza, due settimane.
E poi, vengo di nuovo qui, ogni tanto, in questa spiaggia da cui ti sto scrivendo.
Chissà se in qualche modo mi risponderai.
Chissà se sei felice.

Ma cos’è, poi, la felicità?
Vivere un’estate infinita senza pensare che prima o poi arriverà comunque l’autunno?
Ascoltare un prete indorato dal sole e dagli inserti della sua tunica, che parla di eternità?
Sinceramente, non lo so.
So solo che in questa lettera ti voglio ringraziare per la felicità assoluta che con te ho avuto l’impressione di provare, e chiederti se l’hai condivisa con me.
Cercherò di leggere la tua risposta nella sabbia disordinata dal vento e nelle onde scompigliate del mare.
A presto.

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